Il
presidente della Regione Puglia Nichi Vendola è stato nominato dal ministro dell’Ambiente
Corrado Clini commissario alla bonifica dell'area di Taranto. Questa notizia
non è stata presa bene da molti attivisti, che già sui social network hanno commentato aspramente la decisione, esprimendo
rammarico e sdegno “per colui (Vendola,ndr) il quale ha detto tutto e il
contrario di tutto e che inaugurò all'ombra del camino E 312 l'impianto Urea mano
nella mano con la Prestigiacomo” (gruppo Aria pulita per Taranto). Questa
decisione è stata accompagnata, a livello temporale, dalla decisione della
Procura di Taranto, che ha espresso parere negativo sull’istanza di dissequestro
avanzata dall’Ilva per gli impianti dell’area a caldo, sottoposti ai sigilli da
luglio. Su questo punto il giudice delle indagini preliminari Patrizia Todisco dovrà
esprimersi definitivamente forse in settimana. Intanto il viaggio tra i
protagonisti della città jonica continua con l’intervista a Vincenzo De Palmis,
tecnico
del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Taranto; De Palmis si occupa in
particolare di monitoraggio in ambito marino-costiero.
A cura di Vito Stano
Vincenzo De Palmis - Foto Archivio Vito Stano |
L’altoforno
cinque è quello che si vuole spegnere? Esattamente. Quindi qual è il vostro progetto? Il
progetto è molto semplice, esiste ormai un diffuso inquinamento che investe le
falde, il mare, investe l’atmosfera. Questi elementi naturali dovranno essere
bonificati, a bonificare potranno essere gli stessi operai che attualmente
lavorano nello stabilimento, ovviamente dovranno essere formati. Questa
attività non produttiva la si rende produttiva attraverso l’applicazione di una
semplice regola, che è una legge: chi ha inquinato deve pagare. In questo caso
i soggetti sono due: uno è lo Stato, allorquando deteneva l’Italsider, e
l’altro soggetto è il gruppo Riva. Chi ha inquinato paga e con i risarcimenti
saranno messe in moto queste gigantesche operazioni di bonifica e a lavorare
saranno gli stessi operai che attualmente lavorano all’Ilva. Questo è il nostro
progetto. Quanto potrebbe durare la
bonifica? Le stime parlano di un minimo di vent’anni. Quindi si darebbe
lavoro per vent’anni, se non di più, alle maestranze che lavorano all’Ilva. Non parliamo di opere di
ambientalizzazione degli impianti, cioè rendere gli impianti ecocompatibili, ma
di mettere in atto una imponente opera di bonifica dell’intera città. Ho ben
capito? Esattamente, parliamo di tutto il territorio. Ricordiamoci che al
rione Tamburi vige un divieto di accesso in aree non pavimentate, pertanto i
bambini non possono giocare in quei terreni perché sono contaminati da sostanze
altamente tossico-nocive. A questo proposito c’è una ordinanza del Sindaco di
Taranto che vieta l’accesso alle aree non pavimentate, cioè ai giardini
pubblici perché nel terreno sono stati riscontrati valori altissimi di
inquinamento. Dunque il progetto si dipana su una linea che prevede
risarcimenti, bonifiche, lavoro. D’altronde Porto Marghera ha ricevuto ben 5
miliardi di euro per le opere di bonifica, 3 miliardi da privato e 2 miliardi
dallo Stato. Partendo dal principio che una ecocompatibilità non potrà mai
esserci, semplicemente perché questa fabbrica è stata costruita all’interno di
Taranto cioè tra la città e il borgo di Statte (divenuto poi Comune autonomo,
ndr), si può benissimo dire che questa gigantesca industria, la più grande
industria siderurgica d’Europa, è stata costruita dentro la città di Taranto. A
proposito ci sono delle leggi europee che vietano la costruzione delle
cokerie a meno di mille e settecento
metri dalle abitazioni; questa distanza ovviamente a Taranto non è stata
rispettata. In soldoni questa fabbrica non potrà mai essere ecocompatibile con
una città che conta circa 220mila abitanti, città che in virtù di questa
tipologia di fabbrica che prevede un ciclo integrato, praticamente la materia
prima arriva, viene sciolta e poi trasformata, e quindi viene impiegata
moltissima energia che a sua volta viene prodotta anche dalle centrali
elettriche che funzionano ad olio combustibile.
Queste
fabbriche di energia sono presenti a Taranto? Queste
centrali sono presenti nell’area industriale. Area industriale che annovera al
suo interno delle discariche per smaltire i rifiuti che lì vengono prodotti. Ci
sono le cokerie che trasformano il carbon-fossile in carbon-coke. È vero che ci
sono dei depolverizzatori che abbattono la quantità di polvere emessa
nell’atmosfera, però non si può assolutamente concepire un impianto che brucia
e che tra l’altro possiede un parco minerali a cielo aperto grande 74 ettari,
pari a 94 campi di calcio a undici. È chiaro che queste sostanze con il vento
si disperdono e quindi vengono inalate dagli abitanti di questa città che è
attaccata alla città anzi, è l’industria che è attaccata alla città, in quanto
gli stabilimenti dell’allora Italsidere furono edificati vicino al quartiere
Tamburi e non il contrario, come sostiene erroneamente il ministro
dell’Ambiente Corrado Clini alimentando un falso storico. Questo
è il progetto alternativo che voi serbate per Taranto, ma avete credito presso
le istituzioni? E poi c’è un dialogo aperto con gli altri protagonisti della
vicenda? Innanzitutto il primo a parlare in termini di risarcimento
e poi di bonifica, che per inciso non si può fare se la fonte inquinante
continua ad inquinare, è stato Angelo Bonelli, presidente nazionale dei Verdi,
che si è presentato alle ultima elezioni amministrative a Taranto come
candidato sindaco. A questo proposito ricordo che Bonelli ha preso ben 12mila
voti e abbiamo fatto (Vincenzo De Palmis era candidato nella lista che
sosteneva Bonelli, ndr) una campagna elettorale all’insegna dell’economia,
spendendo pochissimo. Ciò nonostante 12mila persone hanno votato per questo
estraneo, che ha scontato la mancanza di fiducia dei tarantini più
conservatori, premiando così le solite forze politiche al governo della città
per la seconda volta consecutiva, che secondo me sono assolutamente incapaci di
fronteggiare quelle che sono le difficoltà non solo ambientali ma anche
sanitarie. Adesso stiamo notando una sorta di conversione, cioè tanti partiti
politici adesso parlano di bonifiche riempiendosi la bocca. In definitiva non
ci voleva Bonelli per parlare di bonifica, lui ha aperto un discorso e ha
tracciato una linea semplice e chiara, adesso molti partiti hanno fatto propria
questa intuizione e anche oro ne parlano.
Con
i sindacati invece, qual è il rapporto? I sindacati hanno sempre
difeso il diritto del lavoro, senza pensare che anche la salute fosse un
diritto paritetico. Tra l’altro se non c’è la salute non vedo come si possa
parlare di lavoro; anche perché i primi ad ammalarsi, checché ne dicano i
sindacati o meglio la vecchia concezione del sindacato, sono stati proprio i
lavoratori dell’Ilva: è avvenuto in questi anni un vero e proprio sterminio di
lavoratori che una volta smessa la tuta da lavoro si sono poi trovati a fare i
conti con malattie gravissime. Quindi il sindacato che si batte per il lavoro
non ha molto senso, è una logica un pò perversa. Difendere il diritto al lavoro
senza difendere il diritto alla salute non ha alcun senso. Una città, una
comunità deve reggersi su un insieme di diritti, primo su tutti quello della
salute, che non è mai stata presa in considerazione dal sindacato. Adesso vedo una
certa tendenza ad invertire concetti.
Questo non può che farmi piacere, però io credo che il sindacato deve fare uno
sforzo in più: deve veramente schierarsi dalla parte del lavoratore e non dalla
parte del padrone prima di tutto. E secondo deve comprendere che una fabbrica non
è costruita per produrre in eterno; una fabbrica viene costruita per dare posti
di lavoro che a sua volta deve garantire il diritto affinché lo stesso
lavoratore non si debba poi ammalare. Dopo
le evoluzioni di questi ultimi mesi avete avuto modo di confrontarvi direttamente
con i lavoratori? Credo che la sensibilizzazione stia
aumentando anche tra i lavoratori, i quali stanno comprendendo non possono
mirare soltanto al mantenimento del posto di lavoro, ma stanno comprendendo che
va salvaguardata la loro integrità e non mi riferisco solo alle malattie ma
anche ai tanti e tanti infortuni che avvengono nella fabbrica, da ultimo quello
in cui è morto un ragazzo di ventinove anni, Claudio Marsella. Quindi molti
lavoratori hanno fatto probabilmente una giusta riflessione, anche perché molti
di loro sono padri di famiglia e hanno figli e per nessuna ragione al mondo
vorrebbero vedere i loro figli ammalati dal prodotto del loro lavoro. Esistono
quelle frange che continuano a raccontare durante le interviste che
preferiscono morire di cancro piuttosto che morire di fame; questo concetto lo
ritengo stupido e offensivo, perché offende l’intelligenza dell’esser umano. Tutto
ciò è inconcepibile anche perché Taranto è una città straordinaria, è una città
ricchissima di risorse maturali, che se ben gestite può offrire tanto.
Cosa
offrirebbe Taranto secondo te ai lavoratori attualmente impiegati nella
fabbrica? Penso ai due mari di Taranto e in particolare al mar
Piccolo che oggi è un ecosistema inquinato in cui si sono persi moltissimi
posti di lavoro nella mitilicoltura. Questa situazione se paragonata alla città
di Vigo, in Spagna nella regione della Galizia, dove nelle attività di
itticoltura e mitilicoltura sono impiegate ben 20mila persone, quindi molto di
più di quello che garantisce oggi l’Ilva, che sono 11mila 792 lavoratori. Di
cui solo una parte sono residenti a Taranto, la maggior parte dei lavoratori
vengono dalle province di Brindisi, Bari, Lecce, Matera e dalla stessa
provincia di Taranto, anche dai quei centri, e lo dico con una leggera vena
polemica, che con il riordino delle province vogliono andare con la provincia
di Lecce. Il problema è che questa grande industria fu creata, sacrificando un
intero territorio, per dare lavoro a migliaia di persone che non esitarono a
lasciare attività legate al mare, all’artigianato e all’agricoltura. Quindi
adesso si tenta, con un investimento anche culturale, di giustiziare quella
fabbrica per restituire a Taranto il futuro rubato e di restituire una speranza
ai suoi figli, i quali attualmente sono gravemente ammalati a causa
dell’inquinamento. Ricordiamoci che la neoplasie infantili a Taranto sono in
fortissimo e costante aumento, quindi dismettere quella fabbrica significa
restituire quel futuro fatto anche di turismo, il museo di Taranto dopo quello
di Napoli è il più importante del Meridione. In sintesi di restituire la
dignità a questa città che ha 2mila e settecento anni di storia e checché ne
dica il presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido questa non è una
città a vocazione industriale, non si può etichettare una città sulla base degli
ultimi cinquant’anni. Questa è una città che ha fortissimi legami con il mare,
ha un grande porto oggi completamente asservito agli interessi dell’industria e
questo non è un bene, perché l’asservimento univoco ad una fabbrica non
permette alle altre attività di espandersi. E tra l’altro non è vero che questa
fabbrica ha creato posti di lavoro, questa fabbrica ha bruciato posti di lavoro
e ha fatto attorno a sé terra bruciata. Ricordiamo anche lo sterminio degli
ovo-caprini, circa 3mila esemplari abbattuti e assieme a questi la perdita dei
posti di lavoro perduti in questo settore. Ricordiamoci dei posti di lavoro
persi nella mitilicoltura e teniamo presente tutte quelle attività che non
possono decollare: un turista esigente potrebbe venire a Taranto nello stato
attuale? Non credo, per vedere cosa? Le ciminiere? Non può svilupparsi in
queste condizioni un turismo. È una città marchiata dall’industria e
dall’inquinamento. Per capirci io non sono contrario all’industria, sono
contrario a quelle industrie che per produrre e garantire dei profitti che non
vanno alle popolazioni locali ma prendono vie molto più a nord di Taranto. Qui
rimangono solamente le briciole, lo sporco e rimane la tristezza di vedere una
città bella ma violentata dalla grande industria che di certo non attira
turismo, benessere e ricchezza. Quello che a Taranto serve non sono i posti di
lavoro, a Taranto serve ricchezza: creando ricchezza si crea un indotto di
benessere diffuso.
Come
si crea questa ricchezza di cui parli? Alla ricchezza si arriva
attivando tutte quelle attività compatibili con l’ambiente. Secondo te si ritornerebbe di nuovo alla miticoltura? Perché no?
E quanto ci vorrebbe prima che queste
attività possano dare risultati positivi? È chiaro che tutto parte dall’individuazione
delle fonti inquinanti, la soppressione, la bonifica per poi poter ripartire
con le attività compatibili con l’ambiente. Per fare le cozze c’è bisogno solo
di mare, sole e aria; non c’è bisogno di altoforni o cokerie. La mitilicoltura
peraltro favorirebbe anche lo sviluppo turistico, abbinato la grande risorsa rappresentata
dalla storia di questa città. Non può una città essere monopolizzata dalla
produzione dell’acciaio, anche perché credo che ogni città, ogni territorio
deve produrre in base alle proprie caratteristiche naturali: Taranto di
naturale ha il mare e in particolare il mar Piccolo, dove si potrebbe
realizzare un immenso allevamento di pesci, fatto quindi in mare e non in
vasche o in gabbie, in un ecosistema naturale piccolo e controllabile. Questa
sarebbe la grande scommessa. Io credo che questa città una volta ritornata alla
originaria vocazione riuscirà a ricompattarsi anche dal punto di vista sociale. Quando parli di bonifica a cosa ti riferisci
concretamente? Basti pensare che a Taranto la quantità di diossina che è
stata emessa è almeno due o tre volte di più di quella di Seveso e se li hanno
asportato circa 70 centimetri di terreno per un raggio di diversi chilometri, a
Taranto dovrebbe praticarsi almeno lo stesso trattamento, se non addirittura più
incisivo perché, come detto, le percentuali di inquinamento sono molto più
elevate. Che fine farebbe quel terreno inquinato? Questo
terreno dovrebbe essere stoccato e inviato certamente in Germania per essere
neutralizzato per evitare che le sostanze tossiche continuino a disperdersi
nell’ambiente.
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