venerdì 23 novembre 2012

"Non può una città essere monopolizzata dalla produzione dell’acciaio, anche perché credo che ogni città, ogni territorio deve produrre in base alle proprie caratteristiche naturali. Taranto di naturale ha il mare": parla Vincenzo De Palmis, attivista di Taranto Respira


Il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola è stato nominato dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini commissario alla bonifica dell'area di Taranto. Questa notizia non è stata presa bene da molti attivisti, che già sui social network hanno commentato aspramente la decisione, esprimendo rammarico e sdegno “per colui (Vendola,ndr) il quale ha detto tutto e il contrario di tutto e che inaugurò all'ombra del camino E 312 l'impianto Urea mano nella mano con la Prestigiacomo” (gruppo Aria pulita per Taranto). Questa decisione è stata accompagnata, a livello temporale, dalla decisione della Procura di Taranto, che ha espresso parere negativo sull’istanza di dissequestro avanzata dall’Ilva per gli impianti dell’area a caldo, sottoposti ai sigilli da luglio. Su questo punto il giudice delle indagini preliminari Patrizia Todisco dovrà esprimersi definitivamente forse in settimana. Intanto il viaggio tra i protagonisti della città jonica continua con l’intervista a Vincenzo De Palmis, tecnico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Taranto; De Palmis si occupa in particolare di monitoraggio in ambito marino-costiero.

A cura di Vito Stano

Vincenzo De Palmis - Foto Archivio Vito Stano
Fai parte di un’associazione ambientalista? Faccio parte di un’associazione ambientalista che si chiama “Taranto Respira”, ma da sempre mi occupo di ambiente per passione, avendo tra l’altro svolto in passato attività di speleologo ed essendo stato membro del Soccorso alpino; quindi sono molto legato agli ambienti naturali.  Una settimana fa all’incirca è stato deciso lo sblocco di una delle navi ferme nel porto a causa del fermo giudiziario ed è stata autorizzata a scaricare il minerale che portava e quindi praticamente a rinnovare il ciclo produttivo, continuando a venir meno alla decisione dei giudici della Procura di Taranto, i quali avevano sequestrato l’area a caldo. Il mondo ambientalista tarantino come sta reagendo alle novità che giorno dopo giorno arricchiscono e confondono il quadro secondo te? Ci sono vari stati di umore, se così possiamo dire. Da una parte c’è una sorta di entusiasmo iniziale che ripone nella magistratura la speranza che si possa giungere finalmente alla chiusura e nello stesso tempo un certo sconforto quando si apprendono quelle decisioni, come l’ultima, che seppur trattandosi di una semplice deroga permette lo sbarco delle materie prime, credo si tratti di materiali ferrosi atti alla fabbricazione dell’acciaio, e quindi la riattivazione del ciclo produttivo soprattutto dell’area a caldo. Quindi c’è questo dualismo: una sorta di fiducia incondizionata nell’operato della magistratura e sconforto per la deroga alla produzione decisa dalla stessa, perché la nostra aspirazione, il nostro desiderio è quello di vedere questa fabbrica chiudere i battenti e che Taranto possa andare oltre la monocultura dell’acciaio e la monocultura della diossina. Qual è il disegno che avete in mente? Il discorso è molto semplice, alcuni dicono che si tratta di un disegno utopistico: a mio avviso è così utopistico, cioè così avanti, da poter essere realizzato. Innanzitutto facciamo una piccola distinzione, la chiusura che tutti auspicano è quella dell’area a caldo, è chiaro che senza l’area a caldo l’area cosiddetta a freddo (laminatori, tubifici, eccetera) difficilmente potrà avere un futuro, perché il tutto dipende dalla grossa produzione dell’area a caldo. Per quel che riguarda la produzione a freddo, ci sono altri stabilimenti tra cui Genova, che possono tranquillamente lavorare a freddo. Tanto è vero che l’area a caldo di Taranto esporta a Genova i prodotti già fusi, già finiti insomma: a Genova si produce a freddo quello che a Taranto si produce a caldo. Il quinto altoforno serve proprio per le esigenze dello stabilimenti genovese.

L’altoforno cinque è quello che si vuole spegnere? Esattamente. Quindi qual è il vostro progetto? Il progetto è molto semplice, esiste ormai un diffuso inquinamento che investe le falde, il mare, investe l’atmosfera. Questi elementi naturali dovranno essere bonificati, a bonificare potranno essere gli stessi operai che attualmente lavorano nello stabilimento, ovviamente dovranno essere formati. Questa attività non produttiva la si rende produttiva attraverso l’applicazione di una semplice regola, che è una legge: chi ha inquinato deve pagare. In questo caso i soggetti sono due: uno è lo Stato, allorquando deteneva l’Italsider, e l’altro soggetto è il gruppo Riva. Chi ha inquinato paga e con i risarcimenti saranno messe in moto queste gigantesche operazioni di bonifica e a lavorare saranno gli stessi operai che attualmente lavorano all’Ilva. Questo è il nostro progetto. Quanto potrebbe durare la bonifica? Le stime parlano di un minimo di vent’anni. Quindi si darebbe lavoro per vent’anni, se non di più, alle maestranze che lavorano all’Ilva. Non parliamo di opere di ambientalizzazione degli impianti, cioè rendere gli impianti ecocompatibili, ma di mettere in atto una imponente opera di bonifica dell’intera città. Ho ben capito? Esattamente, parliamo di tutto il territorio. Ricordiamoci che al rione Tamburi vige un divieto di accesso in aree non pavimentate, pertanto i bambini non possono giocare in quei terreni perché sono contaminati da sostanze altamente tossico-nocive. A questo proposito c’è una ordinanza del Sindaco di Taranto che vieta l’accesso alle aree non pavimentate, cioè ai giardini pubblici perché nel terreno sono stati riscontrati valori altissimi di inquinamento. Dunque il progetto si dipana su una linea che prevede risarcimenti, bonifiche, lavoro. D’altronde Porto Marghera ha ricevuto ben 5 miliardi di euro per le opere di bonifica, 3 miliardi da privato e 2 miliardi dallo Stato. Partendo dal principio che una ecocompatibilità non potrà mai esserci, semplicemente perché questa fabbrica è stata costruita all’interno di Taranto cioè tra la città e il borgo di Statte (divenuto poi Comune autonomo, ndr), si può benissimo dire che questa gigantesca industria, la più grande industria siderurgica d’Europa, è stata costruita dentro la città di Taranto. A proposito ci sono delle leggi europee che vietano la costruzione delle cokerie  a meno di mille e settecento metri dalle abitazioni; questa distanza ovviamente a Taranto non è stata rispettata. In soldoni questa fabbrica non potrà mai essere ecocompatibile con una città che conta circa 220mila abitanti, città che in virtù di questa tipologia di fabbrica che prevede un ciclo integrato, praticamente la materia prima arriva, viene sciolta e poi trasformata, e quindi viene impiegata moltissima energia che a sua volta viene prodotta anche dalle centrali elettriche che funzionano ad olio combustibile.

Queste fabbriche di energia sono presenti a Taranto? Queste centrali sono presenti nell’area industriale. Area industriale che annovera al suo interno delle discariche per smaltire i rifiuti che lì vengono prodotti. Ci sono le cokerie che trasformano il carbon-fossile in carbon-coke. È vero che ci sono dei depolverizzatori che abbattono la quantità di polvere emessa nell’atmosfera, però non si può assolutamente concepire un impianto che brucia e che tra l’altro possiede un parco minerali a cielo aperto grande 74 ettari, pari a 94 campi di calcio a undici. È chiaro che queste sostanze con il vento si disperdono e quindi vengono inalate dagli abitanti di questa città che è attaccata alla città anzi, è l’industria che è attaccata alla città, in quanto gli stabilimenti dell’allora Italsidere furono edificati vicino al quartiere Tamburi e non il contrario, come sostiene erroneamente il ministro dell’Ambiente Corrado Clini alimentando un falso storico. Questo è il progetto alternativo che voi serbate per Taranto, ma avete credito presso le istituzioni? E poi c’è un dialogo aperto con gli altri protagonisti della vicenda? Innanzitutto il primo a parlare in termini di risarcimento e poi di bonifica, che per inciso non si può fare se la fonte inquinante continua ad inquinare, è stato Angelo Bonelli, presidente nazionale dei Verdi, che si è presentato alle ultima elezioni amministrative a Taranto come candidato sindaco. A questo proposito ricordo che Bonelli ha preso ben 12mila voti e abbiamo fatto (Vincenzo De Palmis era candidato nella lista che sosteneva Bonelli, ndr) una campagna elettorale all’insegna dell’economia, spendendo pochissimo. Ciò nonostante 12mila persone hanno votato per questo estraneo, che ha scontato la mancanza di fiducia dei tarantini più conservatori, premiando così le solite forze politiche al governo della città per la seconda volta consecutiva, che secondo me sono assolutamente incapaci di fronteggiare quelle che sono le difficoltà non solo ambientali ma anche sanitarie. Adesso stiamo notando una sorta di conversione, cioè tanti partiti politici adesso parlano di bonifiche riempiendosi la bocca. In definitiva non ci voleva Bonelli per parlare di bonifica, lui ha aperto un discorso e ha tracciato una linea semplice e chiara, adesso molti partiti hanno fatto propria questa intuizione e anche oro ne parlano.

Con i sindacati invece, qual è il rapporto? I sindacati hanno sempre difeso il diritto del lavoro, senza pensare che anche la salute fosse un diritto paritetico. Tra l’altro se non c’è la salute non vedo come si possa parlare di lavoro; anche perché i primi ad ammalarsi, checché ne dicano i sindacati o meglio la vecchia concezione del sindacato, sono stati proprio i lavoratori dell’Ilva: è avvenuto in questi anni un vero e proprio sterminio di lavoratori che una volta smessa la tuta da lavoro si sono poi trovati a fare i conti con malattie gravissime. Quindi il sindacato che si batte per il lavoro non ha molto senso, è una logica un pò perversa. Difendere il diritto al lavoro senza difendere il diritto alla salute non ha alcun senso. Una città, una comunità deve reggersi su un insieme di diritti, primo su tutti quello della salute, che non è mai stata presa in considerazione dal sindacato. Adesso vedo una certa tendenza ad invertire  concetti. Questo non può che farmi piacere, però io credo che il sindacato deve fare uno sforzo in più: deve veramente schierarsi dalla parte del lavoratore e non dalla parte del padrone prima di tutto. E secondo deve comprendere che una fabbrica non è costruita per produrre in eterno; una fabbrica viene costruita per dare posti di lavoro che a sua volta deve garantire il diritto affinché lo stesso lavoratore non si debba poi ammalare. Dopo le evoluzioni di questi ultimi mesi avete avuto modo di confrontarvi direttamente con i lavoratori? Credo che la sensibilizzazione stia aumentando anche tra i lavoratori, i quali stanno comprendendo non possono mirare soltanto al mantenimento del posto di lavoro, ma stanno comprendendo che va salvaguardata la loro integrità e non mi riferisco solo alle malattie ma anche ai tanti e tanti infortuni che avvengono nella fabbrica, da ultimo quello in cui è morto un ragazzo di ventinove anni, Claudio Marsella. Quindi molti lavoratori hanno fatto probabilmente una giusta riflessione, anche perché molti di loro sono padri di famiglia e hanno figli e per nessuna ragione al mondo vorrebbero vedere i loro figli ammalati dal prodotto del loro lavoro. Esistono quelle frange che continuano a raccontare durante le interviste che preferiscono morire di cancro piuttosto che morire di fame; questo concetto lo ritengo stupido e offensivo, perché offende l’intelligenza dell’esser umano. Tutto ciò è inconcepibile anche perché Taranto è una città straordinaria, è una città ricchissima di risorse maturali, che se ben gestite può offrire tanto.

Cosa offrirebbe Taranto secondo te ai lavoratori attualmente impiegati nella fabbrica? Penso ai due mari di Taranto e in particolare al mar Piccolo che oggi è un ecosistema inquinato in cui si sono persi moltissimi posti di lavoro nella mitilicoltura. Questa situazione se paragonata alla città di Vigo, in Spagna nella regione della Galizia, dove nelle attività di itticoltura e mitilicoltura sono impiegate ben 20mila persone, quindi molto di più di quello che garantisce oggi l’Ilva, che sono 11mila 792 lavoratori. Di cui solo una parte sono residenti a Taranto, la maggior parte dei lavoratori vengono dalle province di Brindisi, Bari, Lecce, Matera e dalla stessa provincia di Taranto, anche dai quei centri, e lo dico con una leggera vena polemica, che con il riordino delle province vogliono andare con la provincia di Lecce. Il problema è che questa grande industria fu creata, sacrificando un intero territorio, per dare lavoro a migliaia di persone che non esitarono a lasciare attività legate al mare, all’artigianato e all’agricoltura. Quindi adesso si tenta, con un investimento anche culturale, di giustiziare quella fabbrica per restituire a Taranto il futuro rubato e di restituire una speranza ai suoi figli, i quali attualmente sono gravemente ammalati a causa dell’inquinamento. Ricordiamoci che la neoplasie infantili a Taranto sono in fortissimo e costante aumento, quindi dismettere quella fabbrica significa restituire quel futuro fatto anche di turismo, il museo di Taranto dopo quello di Napoli è il più importante del Meridione. In sintesi di restituire la dignità a questa città che ha 2mila e settecento anni di storia e checché ne dica il presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido questa non è una città a vocazione industriale, non si può etichettare una città sulla base degli ultimi cinquant’anni. Questa è una città che ha fortissimi legami con il mare, ha un grande porto oggi completamente asservito agli interessi dell’industria e questo non è un bene, perché l’asservimento univoco ad una fabbrica non permette alle altre attività di espandersi. E tra l’altro non è vero che questa fabbrica ha creato posti di lavoro, questa fabbrica ha bruciato posti di lavoro e ha fatto attorno a sé terra bruciata. Ricordiamo anche lo sterminio degli ovo-caprini, circa 3mila esemplari abbattuti e assieme a questi la perdita dei posti di lavoro perduti in questo settore. Ricordiamoci dei posti di lavoro persi nella mitilicoltura e teniamo presente tutte quelle attività che non possono decollare: un turista esigente potrebbe venire a Taranto nello stato attuale? Non credo, per vedere cosa? Le ciminiere? Non può svilupparsi in queste condizioni un turismo. È una città marchiata dall’industria e dall’inquinamento. Per capirci io non sono contrario all’industria, sono contrario a quelle industrie che per produrre e garantire dei profitti che non vanno alle popolazioni locali ma prendono vie molto più a nord di Taranto. Qui rimangono solamente le briciole, lo sporco e rimane la tristezza di vedere una città bella ma violentata dalla grande industria che di certo non attira turismo, benessere e ricchezza. Quello che a Taranto serve non sono i posti di lavoro, a Taranto serve ricchezza: creando ricchezza si crea un indotto di benessere diffuso.
Come si crea questa ricchezza di cui parli? Alla ricchezza si arriva attivando tutte quelle attività compatibili con l’ambiente. Secondo te si ritornerebbe di nuovo alla miticoltura? Perché no? 

E quanto ci vorrebbe prima che queste attività possano dare risultati positivi? È chiaro che tutto parte dall’individuazione delle fonti inquinanti, la soppressione, la bonifica per poi poter ripartire con le attività compatibili con l’ambiente. Per fare le cozze c’è bisogno solo di mare, sole e aria; non c’è bisogno di altoforni o cokerie. La mitilicoltura peraltro favorirebbe anche lo sviluppo turistico, abbinato la grande risorsa rappresentata dalla storia di questa città. Non può una città essere monopolizzata dalla produzione dell’acciaio, anche perché credo che ogni città, ogni territorio deve produrre in base alle proprie caratteristiche naturali: Taranto di naturale ha il mare e in particolare il mar Piccolo, dove si potrebbe realizzare un immenso allevamento di pesci, fatto quindi in mare e non in vasche o in gabbie, in un ecosistema naturale piccolo e controllabile. Questa sarebbe la grande scommessa. Io credo che questa città una volta ritornata alla originaria vocazione riuscirà a ricompattarsi anche dal punto di vista sociale. Quando parli di bonifica a cosa ti riferisci concretamente? Basti pensare che a Taranto la quantità di diossina che è stata emessa è almeno due o tre volte di più di quella di Seveso e se li hanno asportato circa 70 centimetri di terreno per un raggio di diversi chilometri, a Taranto dovrebbe praticarsi almeno lo stesso trattamento, se non addirittura più incisivo perché, come detto, le percentuali di inquinamento sono molto più elevate.  Che fine farebbe quel terreno inquinato? Questo terreno dovrebbe essere stoccato e inviato certamente in Germania per essere neutralizzato per evitare che le sostanze tossiche continuino a disperdersi nell’ambiente.  

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