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martedì 27 agosto 2013

Africa: popoli e natura - Il racconto per immagini di Roberto Cazzolla Gatti

Al ritorno da un viaggio in Kenya, quasi per effetto calamita, le occasioni per raccontare l'Africa si moltiplicano. Dopo la recensione di 'Ebano', fortunato libro del reporter polacco Ryszard Kapuściński edito da Feltrinelli, a cura di Sara Fiorente, segnaliamo una mostra fotografica dal titolo 'Africa: popoli e natura' di Roberto Cazzolla Gatti, biologo ambientale ed evolutivo

La mostra è aperta già da qualche giorno, dal 22 agosto per la precisione, e resterà aperta fino al 5 settembre presso la biblioteca comunale di Gioia del Colle, in provincia di Bari, città natia di Cazzolla Gatti.

La mostra, come si legge nella locandina, è liberamente ispirata al suo romanzo-saggio 'Il paradosso della civiltà', di cui Sara Fiorente ha proposto una recensione qualche settimana fa. 

Questa mostra, inoltre, segue la pubblicazione di un ebook fotografico edito da Villaggio Globale, inerente l'Indonesia, presso cui Cazzolla Gatti ha condotto recentemente le sue ricerche. ‘Indonesia. Il regno della bellezza’, questo il titolo, è un reportage nel cuore selvaggio dell'Indonesia, dove le attività umane si intrecciano e, spesso, confliggono con la Natura tropicale. Le isole di Java, Bali, Sumatra e Borneo con i loro vulcani fumanti e le colline vestite da risaie contrastano con le fabbriche, le spiagge ricoperte di plastica, le piantagioni di palma da olio che distruggono le rigogliose foreste (pagg. 72, 63 foto).

27.08.2013
Vito Stano

lunedì 26 agosto 2013

In Africa la solitudine è impossibile. Il mondo sommario di Kapuściński

«Il mondo dell'africano medio è diverso. È un mondo povero, sommario, elementare, ridotto a pochi oggetti base: una camicia, una ciotola, una manciata di semi, un sorso d'acqua. La ricchezza e la varietà del suo mondo non si esprimono in forme materiali, concrete, palpabili e visibili, ma nei valori e nei significati simbolici che l'uomo attribuisce agli oggetti più semplici, a infime cose invisibili ai non iniziati». (Ryszard Kapuściński)

Il reporter polacco Ryszard Kapuściński nel suo libro 'Ebano', edito per la prima volta nel 2000 da Feltrinelli, offre un’immersione profonda nel continente africano, e lo spirito con cui affronta il suo viaggio si evince dall’incipit di un capitolo in cui scrive: «Sono venuto a Kumasi senza uno scopo preciso. Di solito si pensa che sia sempre bene avere uno scopo preciso, nel senso di prefiggersi un obiettivo e perseguirlo. D’altro canto però, è una situazione che impone fatalmente dei paraocchi, perché si finisce per vedere solo il proprio scopo. E invece la marcia in più offerta da una visione quanto mai ampia e profonda può rivelarsi molto interessante e importante. Entrare in un mondo nuovo è come entrare in un mistero che può nascondere un’infinità di labirinti, di recessi, di enigmi e di incognite».  

Trasporrei questo concetto nella vita di tutti i giorni ed ecco annullata la regola che: bisogna sempre avere un obiettivo nella vita. Certo gli obiettivi servono a concentrarsi e a motivarsi, in un certo senso, ma come scrive Kapuściński, nello stesso tempo impongono dei paraocchi, che vanno ad ostacolare le scoperte che ciascuno di noi ogni giorno potrebbe fare. È come quando si è in una nuova città e si vuol a tutti i costi seguire un itinerario ben preciso, certo questo ci farà scoprire il monumento pluri-fotografato, la famosa chiesa, la meravigliosa cattedrale, ma magari non ci premetterà di scoprire i vicoli più stretti e nascosti dove aleggiano gli odori e i sapori di quella città, dove si può incrociare lo sguardo di una persona del posto.

Ecco che il libro 'Ebano', non parla dell’Africa in sé ma di alcune persone che vi abitano, e il reporter sostiene l’impossibilità di descrivere il continente, perché in realtà l’Africa non esiste, Africa è una pura denominazione geografica.

Il libro ripercorre alcuni aspetti storici del continente, come ad esempio il genocidio in Uganda o la prima guerra sudanese, ma dà prevalentemente voce alle persone che il reporter ha incontrato sulla sua strada, e da queste voci emergono le forme della cultura africana.

Gli spazi sotto gli alberi che nei villaggi sono quasi sacri, diventano aule scolastiche dove il maestro riunisce i suoi alunni, o una sorta di sala riunioni dove si riuniscono a consiglio gli adulti, o semplicemente una zona d’ombra durante le ore pomeridiane.

Kapuściński incontra i baganda e i loro conterranei karamojong e in loro scopre opposte visioni. I baganda tengono molto alla pulizia personale e indossano sempre vesti pulite e curate, coprendosi le braccia fino ai polsi e le gambe fino alle caviglie, al contrario i karamojong si ritengono belli solo se nudi, e la loro avversione per gli abiti nasce anche da un altro motivo e cioè osservarono che in passato ogni europeo che giungeva fino a loro si ammalava e dedussero che la causa delle malattie fossero i vestiti.  

Il reporter descrive inoltre i differenti riti funebri tra i bantu e i tuareg, mentre i primi seppelliscono i morti nei campi vicino le loro case, a volte addirittura sotto i pavimenti delle loro capanne, per far partecipare simbolicamente i defunti alla vita dei vivi, per consigliarli, vegliarli o anche castigarli. I tuareg, dalla natura più nomade, invece scelgono di seppellire i loro morti in punti casuali del deserto badando a non ritornare mai più in quel luogo. 
 
Un altro aspetto particolarmente curioso di cui si racconta, riguarda l’arte di raccontare: «In Europa a ogni guerra sono dedicati scaffali di libri, archivi zeppi di documenti, sale speciali nei musei. In Africa non esiste niente del genere. Per lunga e terribile che sia, qui la guerra sprofonda rapidamente nel dimenticatoio. Appena finita, le sue tracce spariscono: bisogna seppellire subito i morti, costruire nuove capanne al posto di quelle bruciate». In altri casi invece, seppur la si volesse raccontare, la guerra si combatte su vasti e tragici campi di morte irraggiungibili dai media, così che il resto del mondo resta nella completa ignoranza circa conflitti di proporzioni gigantesche.  

Le pagine di 'Ebano' raccontano ancora dell’indole collettivistica degli africani, delle tradizioni, dello scambio, del cammino e dell’imponente natura.

26.08.2013

Sara Fiorente

lunedì 8 luglio 2013

I paradossi della civiltà tra i "selvaggi" - Recensione di Sara Fiorente

«Noi siamo presi da mille assurde faccende quotidiane e non guardiamo oltre. Ci disperiamo se perde la nostra squadra del cuore. Se l’ultima borsa firmata è stata venduta a saldi a qualcuno prima di noi. Se il nostro partito preferito fallisce alle elezioni perché immerso anch’esso nello squallore della politica. Ci disperiamo se macchiamo le scarpe di marca appena acquistate o reclamiamo, umiliando il cameriere, se al ristorante ci servono filetto in pepe nero, invece che verde, come scritto sul menù. Ci preoccupiamo della nostra pulizia domestica, ma insozziamo bagni pubblici che altri puliranno».

Spero mi perdonerà l’autore Roberto Cazzolla Gatti, per aver riportato quasi un intero paragrafo del suo libro ‘Il paradosso della civiltà’ (Adda Editore 2013).

Quasi sicuramente sarà capitato a ciascuno di noi di essersi trovato in una delle situazioni descritte, e se ci si ferma a riflettere sulle reazioni che ne scaturiscono, ecco che si può parlare dei paradossi della civiltà e di come siamo diventati vittime di una sorta di assuefazione che ci fa perdere di vista la reale importanza di ogni cosa.

Il libro di Roberto Cazzolla Gatti è un viaggio che il lettore fa nelle esistenze di un pigmeo che vive nella foresta tropicale del Congo, e di un uomo “civile” che vive in Italia. I capitoli, in modo alternato affrontano le fasi della vita dalla prima infanzia sino alla morte, dell’uno e dell’altro. Due vite che inizialmente vengono narrate separatamente, poi si incontrano e scontrano, e dalla narrazione romanzata emergono una vasta molteplicità di temi, tipici di un saggio; tant’è vero che si parla in questo caso di un romanzo-saggio che narra in estrema sintesi la storia dell’umanità.

Sarà attraverso le vicende di Mathaar e Tommaso, i due protagonisti, che si avrà occasione di riflettere su una complessità di questioni: dalla società dei consumi all’autenticità delle emozioni, dall’inquinamento dilagante alle donazioni salva-coscienza, dal potere del denaro al profumo del sole, dalla vulnerabilità dell’uomo al potere della Natura, dal cancro alla violenza.

Civiltà e Natura sono i due mondi che l’autore (biologo ambientale ed evolutivo) racconta con un linguaggio snello alternato da riflessioni incisive.

Nonostante la dura e giusta critica nei confronti del mondo civile, proprio per le ripercussioni che esso provoca nel continente africano, l’autore non smette di sperare in un risveglio della sensibilità e della coscienza umana e scrive: «l’uomo può arrestare in tempo i suoi cechi passi».

Nel libro si narra di come i pigmei non abbiano bisogno di scuole, perché dalla foresta imparano già tutto, anche noi civili, ritrovando semplicemente la giusta messa a fuoco sulla vera ricchezza della vita, potremo non aver più l’illusione di Essere solo perché possediamo.   

08.07.2013                                        

Sara Fiorente

sabato 1 dicembre 2012

«Guardare a destra o a sinistra, Berlusconi o Bersani, se non ci diamo una mossa, non farà nessuna differenza. Occorre cambiare tutto»: Paolo Ferrero indica un'alternativa possibile per uscire dalla crisi

Primarie si, primarie no. Decisamente primarie no. Magari invece di scalpitare per il populismo di un centro-sinistra che  fa credere di voler cambiare tutto (pur rimanendo saldamente al fianco di Monti, con Pdl e Udc) sarebbe meglio impegnare alcune ore del nostro prezioso tempo a capirci qualcosa in più. I testi consigliabili sono tanti e tra questi Pigs! di Paolo Ferrero, edito da DeriveApprodi, con il quale il segretario di Rifondazione Comunista, già ministro del Welfare, cerca, e ci riesce bene, a spiegare perché oggi siamo dove siamo. Il sottotitolo è esplicativo La crisi spiegata a tutti. Questo sottotitolo potrà suonar banale a coloro i quali della crisi credono di sapere tutto e invece per quanto il bombardamento mediatico ha, dal 2007 ad oggi, letteralmente invaso le coscienze degli italiani, senza però rendere mai veramente comprensibile la genesi di tutto: quando e dove è iniziato tutto? Sono domande tanto semplici quanto cruciali: la storia dello spread che sale e scende ha reso tutto più difficile, in quanto, come sempre la cattiva informazione fa, anziché ridurre ai minimi termini, cioè invece di spiegare in un linguaggio comprensibile a tutti, cerca delle icone alle quali far riferimento, togliendo la possibilità a tutti di capire davvero. Perché se è vero che qualche nozione di economia sarebbe opportuna avercela, è vero anche che non occorre essere scienziati per comprendere dove, chi, come, perché tutto è cominciato. Da queste domande inizierà un viaggio a ritroso all'origine dei problemi, per poi arrivare alle possibili soluzioni proposte da un politico posizionato al di fuori dei capannelli parlamentari e governativi che dal novembre 2011 stanno tutti assieme appassionatamente decidendo quale strada è giusta per uscire dalla crisi.

La crisi è scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti d'America, ma la sua genesi va ricercata nelle politiche che da anni vengono perseguite e realizzate a tutti i livelli: per esempio la decisione di abrogare la distinzione tra banche commerciali e banche d'investimento (legge Glass-Steagall) da parte del governo americano (amministrazione Clinton 2007) ha reso possibile che gli istituti bancari potessero fare speculazione finanziaria con i risparmi privati. A questo c'è da aggiungere che negli Usa sono sempre stati finanziati i consumi con la vendita a rate e con il rilascio di carta di credito anche a quei soggetti che non avevano garanzie economiche. Questa possibilità di cui il ceto lavoratore ha goduto, in realtà - spiega Ferrero - è stata necessaria perché dagli anni Ottanta il totale dei salari ha subito un tracollo a favore del profitto. In pratica dagli anni Ottanta ad oggi la forbice tra coloro che hanno così tanto denaro da non sapere cosa farsene e coloro che stentano ad arrivare a fine mese pur lavorando si è divaricata in tutti i grandi paesi industrializzati: «il crollo salariale della quota salariale è compreso tra il -6,2% degli Stati Uniti e il 17,4% del Giappone (...). Per quanto riguarda l'Italia, una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazionali pubblicata nel 2007 ha evidenziato che dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno perso 8 punti percentuali di reddito, mentre i profitti sono cresciuti nella stessa proporzione» (Vladimiro Giacché, Titanic Europa, 2012). 

Questi dati percentuali rendono l'idea di quello che è accaduto: il denaro è andato via dalle tasche dei lavoratori e non si è volatilizzato, si è semplicemente spostato. Dove? Facile chi già aveva tanto ha accumulato ancora di più. La crisi, come un sindacalista di lungo corso mi ricordò tempo fa, per i lavoratori c'è sempre stata: nel senso che i lavoratori per ricevere reddito dovevano prestare l'opera lavorativa. Dunque cosa è cambiato? È successo che banalmente i governanti di quasi tutti i paesi del mondo hanno dichiarato all'unisono che la crisi è frutto della eccessiva spesa pubblica (il tanto caro e sudato stato sociale europeo), dell'aver vissuto al di sopra delle condizioni, dello sciupio. 

Allora è bene a questo punto chiedersi cosa di così straordinario la classe operaia, concetto chiave dell'analisi comunista, ha fatto in questi anni. Quali lussi si è concesso l'operaio o l'impiegato? E il precario? E il disoccupato e il pensionato? Magari ha acquistato per sfizio una barca o un'auto di grossa cilindrata? Ebbene le risposte a queste banalissime domande potranno aiutare il lettore-cittadino a capire meglio che la crisi, e ancor più la strada scelta per uscirne, è frutto di scelte deliberate volte a smontare i pilastri dello stato sociale, a realizzare una massa di lavoratori sfruttabili e ricattabili, grazie alla possibilità che hanno i detentori del capitale di esportarlo ovunque possa essere più vantaggioso investirlo (Paolo Ferrero). La globalizzazione (e la struttura istituzionale dell'Unione Europea) ha dato la possibilità di far viaggiare i capitali, ma non ha permesso alle persone (tranne ai cittadini dei paesi ricchi) di spostarsi liberamente, basti pensare all'invenzione giuridica del clandestino. Dunque i capitali possono essere spostati dove renderanno di più e le persone invece per spostarsi, magari alla ricerca di un futuro migliore, possono farlo soltanto se sono cittadini europei o americani o di altri pochi paesi o a condizioni scarsamente praticabili. 

Quindi le banche (che investono i risparmi dei contribuenti in spericolate manovre finanziarie), i consumi a credito che fanno sentire benestante anche i meno abbienti, fino a quando (com'è successo negli Usa) vengono a toglierti tutto iniziando dalla casa e poi oltre alle politiche che hanno portato i cittadini a diventare folli consumatori c'è la volontà - secondo Ferrero - di ridurre la condizione umana anziché fare di tutto per estendere i diritti a quanti ancora non ne hanno. Le vie d'uscite, in sintesi, sono individuabili in un'inversione delle politiche, frutto del cambiamento radicale dell'idea di sviluppo: fiscal compact, pareggio di bilancio in Costituzione, tagli alla spesa pubblica (sanità, istruzione, servizi sociali), giusto per fare qualche esempio che Paolo Ferrero porta tra i tanti, questi sono nodi cruciali che devono essere ribaltati. Occorre - sentenzia Ferrero in chiusura del volume - investire in spesa pubblica, riprodurre un nuovo New Deal, che guardi alla riconversione verde dell'apparato industriale, puntare sull'efficientamento energetico del paese, investire nella scuola nell'università e nella ricerca, recuperare in agricoltura le buone pratiche e allontanare l'idea degli Ogm. E ancora rigettare questa idea d'Europa e i trattati su cui si fonda per costruirne una nuova, democratica e federale, che sappia guardare al futuro di un continente da sempre al centro delle dinamiche mondiali. Ma intanto che il meccanismo si metta in moto, è bene prendere consapevolezza che questi governanti (Monti, Berlusconi, Casini, Bersani, giusto per fare qualche nome) stanno firmando (o meglio, lo hanno già fatto) un'ipoteca a nome del popolo italiano, nel nostro caso. Agli italiani e alle italiane il dovere civile di capire i perché della situazione che stiamo vivendo (in quanto è evidente che nessuno avrà interesse a spiegarli) e prendere i provvedimenti più opportuni: il giudice Paolo Borsellino disse in vita «la rivoluzione si fa nelle urne». 

Dunque primarie o no, smettiamo i panni degli infanti affascinati dalle belle parole (se non fosse chiaro, penso al poeta-presidente Nichi Vendola) perché il governo Monti (d'accordo in Europa con la Merkel, Draghi e altri super-titolati Commissari e burocrati europei) ha già tracciato una via e «guardare a destra o a sinistra, Berlusconi o Bersani, se non ci diamo una mossa non farà nessuna differenza. Occorre cambiare tutto» (Paolo Ferrero).

01.12.2012
Vito Stano

mercoledì 5 settembre 2012

Bilal – Lo schiavismo ai tempi dell’Unione Europea



Bere acqua fredda d’estate è la manna che consapevolmente sazia il nostro desiderio, la nostra necessità. La sete molti di noi, occidentali, non l’hanno mai sofferta davvero. Molti di noi non hanno mai neppure sofferto la  fame. Ma ci sono persone non lontane da noi che hanno sperimentato la sofferenza della sete e della fame. E forse qualcuno la soffre ancora oggi in Europa. Nell’Unione regionale dei Paesi Europei ci sono persone che sperimentano la sete, la fame e la violenza. La violenza dell’uomo sull’uomo. Queste persone sono gli schiavi contemporanei. Gli schiavi ai tempi dell’Unione Europea. Le rotte dei trafficanti di carne umana sono numerose, ma quelle che attraversano i deserti del Tenerè e del Sahara sono le più battute. Come ai tempi della Costa d’Oro nel ‘600 il continente africano è ritornato a vendere corpi e qualcuno è ritornano a trarne profitto. La differenza tra i traffici di schiavi di allora e quelli odierni è principalmente nei mezzi di trasporto e nella destinazione finale: il viaggio previsto è la traversata del deserto e poi la traversata del tratto di mar Mediterraneo che divide le coste nord africane da quelle italiane. E non più come nel ‘600 verso l’Atlantico stipati come merci nelle navi per approdare nel Nuovo Mondo, ma su camion nel bel mezzo del deserto per terminare il viaggio al confine di un paese in particolare, la Libia, da cui poi salpare su zattere di fortuna con la speranza di vedere e prendere parte alla vita europea con il lavoro. Dunque chi oggi trae vantaggio dai traffici sono molteplici soggetti, che vivono in mondi lontani geograficamente, ma non idealmente. L’Africa di oggi, ma anche alcuni paesi membri dell’Unione Europea come la Polonia, la Bulgaria e la Romania, offrono una qualità della vita che non è accettabile e questa situazione convince sempre più uomini e donne ad affidarsi a trafficanti senza scrupoli che si arricchiscono sulla speranza e sulla povertà. 

Sergio Gatti - Bilal
Di queste storie poco o nulla è stato scritto, ma quel poco che è stato scritto ha avuto (almeno in chi scrive) un effetto dirompente. Sergio Gatti, giornalista del settimanale “L’Espresso”, ha riflettuto su quale sarebbe stato il modo migliore per fare breccia nel muro dell’omertà della società civile europea, e italiana in particolare, e da ciò è nata l’idea di percorrere da clandestino la rotta dei clandestini. Attraversare il deserto, entrare nel centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, per poi fingersi straniero nuovamente in terra pugliese cercando di confondersi tra i braccianti-schiavi della Capitanata. Il viaggio del giornalista è un’impresa che nessun essere umano sano di mente farebbe se non fosse per la necessità di scappare da una vita senza futuro oppure per l’improrogabile urgenza di raccontare una storia. Anzi, le storie. Le storie di quelle migliaia di uomini e donne in fuga dalla povertà più nera e dalle guerre che insanguinano l’Africa e arricchiscono politici e militari corrotti. La storia di Bilal, questo il nome del cittadino curdo "né cristiano né musulmano" entrato clandestinamente nelle maglie dello schiavismo del XXI secolo nelle cui vesti Sergio Gatti si è calato con enorme coraggio, è la storia di decine di migliaia di migranti che finiscono, ognuno a suo modo, ad ingrassare le fila degli sfruttati di casa nostra. Di tutti quegli invisibili che, come dirà un compagno del deserto a Bilal-Sergio Gatti, “colui che si vede è sicuro che esista. Ma colui che non si vede non vuol dire che sia morto”. I non morti di casa nostra, gli invisibili, sono coloro che raccolgono i pomodori che mangiamo oppure coloro che come manovali edili costruiscono case che non abiteranno mai. 

Gli invisibili di casa nostra sono invece per noi, cittadini europei liberi di circolare nello spazio Schenghen, degli intrusi, dei ruba lavoro. Per le autorità europee sono un numero da aggiungere negli elenchi dei centri di detenzione o come burocraticamente preferiscono chiamarli di “identificazione ed espulsione”, come se la sostanza cambiasse. Anzi, a pensarci rileggendo la storia di Bilal un luogo di detenzione forse sarebbe più accogliente. Un carcere ha delle regole. Un CIE no. O meglio ce le ha sulla carta, ma in pratica, come ha sperimentato Bilal-Gatti, le regole vigenti rispondono ad altre logiche. Logiche razziste che un popolo di emigranti, come lo sono stati gli italiani in passato, non dovrebbe avere nei geni. E invece le angherie hanno il colore rosso delle strisce verticali e il nero dello sfondo delle uniformi di alcuni carabinieri. Ma anche l’arroganza e la leggerezza di alcuni operatori civili del centro. La storia di Bilal-Gatti, come le storie dei tanti Bilal, tra un decreto di espulsione e una nuova traversata nel mare dell’indifferenza europea non finirà fino a quando al centro delle preoccupazioni umane non sarà tornato l’uomo. “Una delle caratteristiche dell’Africa è che lo choc del primo impatto è poca cosa rispetto allo choc del ritorno al nostro mondo delle complicazioni mentali, dei consumi e dello spreco”.

"Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini" 
autore Sergio Gatti
edito da Biblioteca Universale Rizzoli (9,60 euro)

05.09.2012
Vito Stano

martedì 3 luglio 2012

Mandato di cattura - Recensione


Il 1939 fu l’ultima estate da ragazzo spensierato prima dell’arresto. Mentre cercava di varcare la frontiera per raggiungere la Francia dove si andava formando l’esercito polacco Albin Kazimierz fu fermato. Successivamente deportato al Kamp Lager di Auschwitz nelle vicinanze si Oswiecim e marchiato con il numero 118. L’autore del libro "Mandato di cattura" subisce con i compagni di sventura le  severe regole del campo, i lavori forzati e le punizioni senza perdere la voglia di vivere e di lottare, che lo porteranno alla salvezza.

Mandato di cattura di Albin Kazimierz un è un libro importante per gli straordinari contenuti inediti che racchiude: in esso l'autore ha raccontato la vita quotidiana in un campo di sterminio ad Auschwitz. Ma ciò arricchisce ulteriormente è la storia della resistenza partigiana polacca, che proprio nei lager ebbe il suo battesimo.

Quando nel 1942 il Reich decise di porre fine al problema ebraico, optò per lo sterminio di massa denominato "soluzione finale", che consisteva nel bruciare corpi esanimi e in alcuni casi persone ancora vive nei forni crematori costruiti per l’occasione. Albin Kazimierz, lasciatosi alle spalle la morte, prese parte al movimento di liberazione. Movimento nato proprio nel KL di Auschwitz al quale aderì l’autore e molti prigionieri, soprattutto polacchi. 

I primi prigionieri che scapparono dai campi di concentramento e riuscirono ad  arrivare a Cracovia, furono ospitati e  protetti. I migliori uomini, i più meritevoli, quelli che già all’interno del campo si erano distinti per coraggio e tenacia, ebbero la possibilità di studiare alla scuola clandestina per ufficiali dell’esercito polacco. Quando cominciarono le rappresaglie da parte della resistenza polacca contro l’esercito nazista, per recuperare armi e poter pensare di fare opposizione militare, in tutta la Polonia si iniziò a respirare un’aria di speranza che accompagnava la notizia dell’arrivo dei russi e degli alleati che avrebbero liberato i prigionieri nei diversi campi di concentramento sparsi nel Reich.

Il 27 gennaio 1945 i russi entrarono nei campi di concentramento mettendo in fuga l’esercito nazista e liberarono i prigionieri ancora rimasti nei campi. Un giorno memorabile quello della liberazione dei campi di sterminio nazista, che viene ricordato ogni anno. Il 27 gennaio viene celebrata la memoria delle vittime del nazismo, dei fascismi e dell’Olocausto e vengono ricordati tutti coloro che rischiarono la propria vita per salvarne delle altre.

Mandato di cattura di Albin Kazimierz
Edito dal Museo Statale di Auschwitz – Birkenau a Oswiecim (Polonia) 2008


03.07.2012
Giulio Stano

mercoledì 11 aprile 2012

Maschere per un massacro - Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia


Vent'anni dopo Paolo Rumiz su La Repubblica del 5 aprile ha raccontato quella notte a Sarajevo in cui tutto ebbe inizio. I ricordi del giornalista triestino aprono una breccia nella consapevolezza dei lettori, rendendo evidente l'enorme divario tra quello che si è visto in tv e letto sui quotidiani e quello che è realmente accaduto. 
Rumiz, oggi come ieri, è lapidario, quando definisce "un imbroglio" tutto ciò che la cronaca quotidiana ha raccontato come una guerra inter-etnica. La dissoluzione della Federazione Jugoslava del dopo Tito è stata la conseguenza delle manovre ciniche della classe dirigente jugoslava, che al fine di conservare il potere non ha risparmiato massacri e violenze inaudite tra i popoli "fratelli" della Jugoslavia. 
A vent'anni dall'ultima guerra che ha insanguinato il vecchio continente, riproponiamo la recensione del libro di Paolo Rumiz "Maschere per un massacro" di Sara Fiorente. Questo volume snello può certamente tornare utile a questo proposito, poiché soltanto il racconto di chi ha vissuto quei giorni può davvero aiutare a comprendere la vera natura della "guerra" jugoslava. 
11.04.2012
V.S.

La guerra è costruita per essere un evento televisivo, tutto è diventato apparenza, rappresentazione, la verità sembra non essere in alcun luogo. Ormai non destano più scalpore le notizie di raid aerei o kamikaze che si fanno esplodere, bombe che distruggono, bambini che muoiono, donne e uomini che soffrono, siamo anestetizzati e assuefatti nei confronti di un certo tipo di notizie. Siamo più tristemente interessati a conoscere amanti, love story, moventi, alibi, zie e cugini di persone a noi personalmente sconosciute ma idealmente molto vicine e intime.
Paolo Rumiz nel suo “Maschere per un massacro”, edito da Feltrinelli nell’”Universale Economica” nel 2011, ripercorre gli avvenimenti che hanno segnato in particolare la guerra degli anni ’90 nei Balcani, contrassegnata da una profonda dezinformacija regista di scene di numerosi massacri. 
La verità occultata da un diluvio di sangue, degno del miglior pulp di Quentin Tarantino, quello vero pare essere meno emozionante, più si ripete e meno diventa importante come notizia, muove lo stomaco ma non il cervello impedendo di guardare al contesto. Soprattutto il sangue confina la nostra indignazione alla sfera morale e umanitaria, e quindi ci impedisce di arrivare alle radici vere dello scontro, che sono politiche.
Rumiz sviscera le ragioni, prevalentemente razziali, che hanno scatenato la guerra, con protagonisti i serbi, i croati e i bosniaci, ma sofferma la sua attenzione sulla costruzione mediatica che ne è stata fatta.
C’era dell’incredibile nell’apprendere che grandi potenze, seppur forti di sofisticati servizi segreti, rimanessero spiazzate da eventi già annunciati, che persino giornali regionali erano stati in grado di prevedere fin nei dettagli. E non solo, la guerra dei Balcani risulta carica di anomalie: serbi che chiedono ai croati di essere bombardati, biblioteche scelte come obiettivi, case dei ricchi distrutte prima di quelle dei poveri, croati che vendono sottobanco carburante ai nemici serbi, serbi che affittano carri armati ai nemici croati, psichiatri in tuta mimetica.
Il libro apre tanti spiragli sulla triste vicenda dei Balcani, citando tra l’altro anche molti scrittori che ne hanno scritto nel corso degli anni. I sociologi hanno definito questa guerra un grande “acceleratore di processo”, stimolatore ideale di una selezione sociale, economica, finanziaria, politica, militare, demografica e perfino antropologica favorevole al potere; da un punto di vista politico ha creato una massa enorme di esuli, accentuando il sistematico sradicamento umano.
L’autore ricorda tra i tanti massacri la tragedia di Srebrenica del luglio ’95 e il vergognoso silenzio dell’Europa sugli ottomila bosniaci massacrati da Mladić, pulizia etnica tra l’altro scandalosamente giustificata da Washington.
Rumiz definisce la storia della guerra dei Balcani una colossale fregatura, quella di quattro banditi che sono riusciti a sdoganare col mondo intero le necessità criminali di una casta come necessità geostrategiche indispensabili alla pace planetaria, spacciando come stabilizzazione uno squilibrio fondato sul crimine e sullo sradicamento.
Nella primissima edizione del libro, di Editori Riuniti, Claudio Magris nell’introduzione scriveva che "la guerra mette a nudo la verità degli uomini e insieme la deforma. Ci sono tanti aspetti di questa verità; uno di essi è la cecità generale - cecità delle vittime, degli spettatori (i servizi d'informazione occidentale, oscillanti tra esasperazione, ignoranza o rimozione dell'orrore e fra cinismo e sentimentalismo) e della grande politica, che nel libro di Rumiz fa una figura grottesca."  

di Sara Fiorente

domenica 1 aprile 2012

Romanzo di una strage - Recensione

La giustizia è giusta?
È il 12 dicembre 1969, una bomba all’interno della Banca dell’Agricoltura a Piazza Fontana a Milano uccide 17 persone e ne ferisce un centinaio. Senza volerne svelare il finale, ma già nei titoli del trailer si legge che  dopo 43 anni (33 di processi) la strage di Piazza Fontana è ancora senza colpevoli, eppure il film conduce lo spettatore verso  diverse ipotesi di colpevolezza. 
Il regista, Marco Tullio Giordana tiene  a precisare che più che senza colpevoli, la strage è senza condannati perché i colpevoli ci sono eccome, ma la giustizia non ha saputo fare abbastanza. Pertanto risulta  legittima e tagliente  la domanda che la vedova dell’anarchico Pinelli pone al Giudice Paolillo “la giustizia è giusta?”
Questa domanda echeggia poi nella mente dello spettatore alla fine del film. 
Oltre alla strage, centrali nel film sono le figure dell’anarchico Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi, rispettivamente interpretati da Pierfrancesco Favino e Valerio Mastrandrea, i due instaurano un rapporto di stima reciproca pur appartenendo a fronti diversi. Dopo la strage, le indagini fanno ricadere le colpe sul gruppo anarchico capeggiato appunto da Pinelli, Calabresi però sa che questi  è innocente.
Non avrà il tempo però di dimostrarlo perché Pinelli dopo 3 giorni di interrogatorio muore precipitando proprio dalla finestra della stanza dove lo stavano interrogando, si vuol far credere che si tratta di suicidio ma questa tesi non regge, la moglie sa che suo marito non è un suicida e soprattutto non è un violento e non avrebbe mai organizzato il disastroso attentato con la morte di tanti civili innocenti. 
Calabresi, che non era presente quando Pinelli muore, sarà comunque  perseguitato e accusato dagli anarchici della morte del loro compagno e non riuscirà mai a dimostrare che stimava Pinelli e che era estraneo alla sua morte. 
Occorreranno degli anni per portare Calabresi poi su un’altra pista, facendogli abbandonare quella  anarchica ed escludendo anche quella neo fascista, scoprirà qualcosa di molto più grande, collegata ad un traffico internazionale di armi e alla Nato per poi scoprire sul Carso un deposito clandestino di armi usato anche dai neofascisti, chi lo condurrà a questa scoperta lo inviterà  a “dimenticare ciò che ha visto e a dimenticare anche tutto il resto!”
Il commissario Calabresi però non si arrenderà, sarà ucciso il 17 maggio del 1972 quando la sua ostinazione e tenacia nel voler scoprire la verità lo avevano portato ad avvicinarsi troppo ai cosiddetti poteri forti alias uomini di Stato.
Il film, il primo dopo quarant’anni sulla strage di Piazza Fontana,  restituisce valore alle figure di Calabresi e Pinelli, ricostruisce anni importanti della storia del nostro Paese. 
Con coraggio, il regista Giordana e gli sceneggiatori Rulli e Petraglia hanno fatto luce su aspetti storici e morali della strage alla Banca dell’Agricoltura.

Quando si riesce a dire poi si può ripartire! (MarcoTullio Giordana)

01.04.2012 
Sara Fiorente

giovedì 8 marzo 2012

Maschere per un massacro - Recensione

Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia

La guerra è costruita per essere un evento televisivo, tutto è diventato apparenza, rappresentazione, la verità sembra non essere in alcun luogo. Ormai non destano più scalpore le notizie di raid aerei o kamikaze che si fanno esplodere, bombe che distruggono, bambini che muoiono, donne e uomini che soffrono, siamo anestetizzati e assuefatti nei confronti di un certo tipo di notizie. Siamo più tristemente interessati a conoscere amanti, love story, moventi, alibi, zie e cugini di persone a noi personalmente sconosciute ma idealmente molto vicine e intime.

Paolo Rumiz nel suo “Maschere per un massacro”, edito da Feltrinelli nell’”Universale Economica” nel 2011, ripercorre gli avvenimenti che hanno segnato in particolare la guerra degli anni ’90 nei Balcani, contrassegnata da una profonda dezinformacija regista di scene di numerosi massacri. 
La verità occultata da un diluvio di sangue, degno del miglior pulp di Quentin Tarantino, quello vero pare essere meno emozionante, più si ripete e meno diventa importante come notizia, muove lo stomaco ma non il cervello impedendo di guardare al contesto. Soprattutto il sangue confina la nostra indignazione alla sfera morale e umanitaria, e quindi ci impedisce di arrivare alle radici vere dello scontro, che sono politiche.

Rumiz sviscera le ragioni, prevalentemente razziali, che hanno scatenato la guerra, con protagonisti i serbi, i croati e i bosniaci, ma sofferma la sua attenzione sulla costruzione mediatica che ne è stata fatta.
C’era dell’incredibile nell’apprendere che grandi potenze, seppur forti di sofisticati servizi segreti, rimanessero spiazzate da eventi già annunciati, che persino giornali regionali erano stati in grado di prevedere fin nei dettagli. E non solo, la guerra dei Balcani risulta carica di anomalie: serbi che chiedono ai croati di essere bombardati, biblioteche scelte come obiettivi, case dei ricchi distrutte prima di quelle dei poveri, croati che vendono sottobanco carburante ai nemici serbi, serbi che affittano carri armati ai nemici croati, psichiatri in tuta mimetica.

Il libro apre tanti spiragli sulla triste vicenda dei Balcani, citando tra l’altro anche molti scrittori che ne hanno scritto nel corso degli anni. I sociologi hanno definito questa guerra un grande “acceleratore di processo”, stimolatore ideale di una selezione sociale, economica, finanziaria, politica, militare, demografica e perfino antropologica favorevole al potere; da un punto di vista politico ha creato una massa enorme di esuli, accentuando il sistematico sradicamento umano.
L’autore ricorda tra i tanti massacri la tragedia di Srebrenica del luglio ’95 e il vergognoso silenzio dell’Europa sugli ottomila bosniaci massacrati da Mladić, pulizia etnica tra l’altro scandalosamente giustificata da Washington.

Rumiz definisce la storia della guerra dei Balcani una colossale fregatura, quella di quattro banditi che sono riusciti a sdoganare col mondo intero le necessità criminali di una casta come necessità geostrategiche indispensabili alla pace planetaria, spacciando come stabilizzazione uno squilibrio fondato sul crimine e sullo sradicamento.

Nella primissima edizione del libro, di Editori Riuniti, Claudio Magris nell’introduzione scriveva che "la guerra mette a nudo la verità degli uomini e insieme la deforma. Ci sono tanti aspetti di questa verità; uno di essi è la cecità generale - cecità delle vittime, degli spettatori (i servizi d'informazione occidentale, oscillanti tra esasperazione, ignoranza o rimozione dell'orrore e fra cinismo e sentimentalismo) e della grande politica, che nel libro di Rumiz fa una figura grottesca".

08.03.2012
di Sara Fiorente   

martedì 6 marzo 2012

Nelle terre estreme di Jon Krakauer

La storia di Chris McCandless ha riportato alla memoria le tante avventure del passato più lontano, ma anche di quello più recente. L’autore Jon Krakauer si imbatté nella storia di Chris come tanti altri giornalisti, ma lui non l’archiviò; col tempo crebbe l’interesse per la storia di quel ragazzo “morto di fame” a pochi chilometri dalla civiltà e questo interesse si stratificò fino a intrecciarsi con le altre storie tristi e misteriose, ma inevitabilmente emblematiche di quell’atteggiamento che caratterizzò le scelte adottate da Chris McCandless e che lo condussero più o meno consapevolmente sul sentiero della fine.
La vita di Chris, così come quella di tanti aspiranti abitanti della Natura estrema, si era,  già in giovane età, contraddistinta da continue richieste di evasione da quella che riteneva una gabbia sociale. Per Chris la vita borghese, incarnata dai suoi genitori, sarebbe stata la tomba e dunque, al termine del suo percorso di studi, intraprese un viaggio che avrebbe dovuto concludersi in pochi mesi, ma che invece divenne il viaggio della vita.

Le peregrinazioni di Chris, in quell’ovest americano sognato e ricercato da tanti amanti della natura selvaggia, si concluderanno dopo circa due anni, quando, dopo aver lavorato e vissuto in diversi luoghi del profondo ovest, le estreme terre del 49° Stato americano lo accoglieranno e lo sfameranno per molte settimane. In Alaska McCandless realizzò finalmente il suo obiettivo di vita immersa nella natura in perfetta solitudine: si cibò di radici e cacciò selvaggina, ma quando decise di ritornare alla civiltà qualcosa andò storto. Il fiume, che guadò al suo arrivo in quelle terre, fu la sorpresa che evidentemente McCandless non si aspettava, la piena estiva lo costrinse a ritornare al suo accampamento per riprendere la vita selvaggia. Paradossalmente quale campo base per la sua vita in natura Chris scelse la carcassa di un autobus, sulle cui pareti lasciò i suoi ultimi messaggi.

Le storie suggestive racchiuse nel volume di Krakauer fanno crescere nel lettore la voglia di vivere imprese simili, ma non solo. Ciò che lascia interdetti è la scoperta di un universo abitato da persone devote a quel mito della Natura selvaggia, di cui oggi molti riserbano soltanto le storie del passato, senza pensare di poterle vivere nel presente.

Recensione del libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme”  edito da Corbaccio (14,11 euro).

06.03.2012
Vito Stano


lunedì 6 febbraio 2012

“Montedidio” di Erri De Luca

Non solo montagne scala il napoletano Erri De Luca. “Montedidio”, alla diciassettesima edizione nel settembre 2011, diverte e commuove. Don Rafaniè è il comprimario di questa storia umile assieme ad un ragazzino-io narrante, che scopre “l’ammore” e la morte in fretta, forse troppo in fretta. Tutto ruota intorno, sopra e sotto a Montedidio, un quartiere di Napoli, l’anima delle vicende raccontate.

E’ il dopoguerra e tutto ha un sapore diverso e uguale alla Napoli di oggi. La povertà c’era e in parte c’è ancora, ma era diversa e aveva altre cause. La solidarietà forse è il grande assente di oggi. In quel ieri era percepita la presenza silenziosa dello sguardo amico del prossimo  nel susseguirsi di una vita povera, ma dignitosa.
“… Pure con la vita triste bisogna darsi da fare, almeno non c’è sporcizia che è una mortificazione in più, ma invece si sta in ordine pure con le lacrime appese.”
Montedidio è la vita della bottega, della cipolla col pane, delle candele che fanno luce nelle stanze buie, della prevaricazione del padrone, “… ripuliamo il fondo della teglia con la mollica del pane, … mangiamo i biscotti alla mandorla, tanti ne ha fatti e tanti ce ne mangiamo, non avanza niente.” 
La fame e la dignità erano compari in quella Napoli, dove anche la fantasia aveva il suo posto a tavola e pure sulla terrazza di Montedidio. Terrazza dalla quale un giorno la tristezza farà largo alla gioia e le strade di due amici si divideranno, per approdare sempre a Montedidio. Un altro Montedidio, diverso e uguale.

06.02.2012
Vito Stano

Erri De Luca, Montedidio
Universale Economica Feltrinelli, Feltrinelli
pp. 142, euro 6,50

lunedì 23 gennaio 2012

Africa, biografia di un continente

«A loro eterna vergogna, gli africani stessi si misero a procacciare schiavi agli intermediari europei, usando non tanto la forza delle armi, quanto quella della tradizione e dell’autorità politica».

Così scrive John Reader in Africa. Biografia di un continente pubblicato nel 1997 per gli Oscar Storia Mondadori. Grande viaggiatore e profondo conoscitore del continente africano, scrittore e fotografo londinese, Reader ha vissuto per lungo tempo in Africa e ha pubblicato diversi volumi tra cui Gli anelli mancanti (Garzanti, 1981), Kilimanjaro (Universe Books, 1982), L’origine della terra: dalla nascita della terra alla comparsa dell’uomo (De Agostini, 1987) e Man on Earth (Collins, 1988). John Reader è membro onorario del dipartimento di antropologia dell’University College di Londra. 

Le pagine che raccontano la tratta degli schiavi e il colonialismo europeo non lasciano indifferenti, anzi del racconto sono certamente i momenti più dolorosi. Ma questa biografia è soprattutto il ritratto di un continente arcano e misterioso, dalla storia affascinante e per lo più sconosciuta.

Con la storia del continente africano inizia il racconto della vita dell’uomo sulla Terra, da allora il destino di questo immenso territorio passerà in modo altalenante tra innumerevoli  fasi storiche apparentemente sonnecchiando. In questo irreale torpore sono fiorite e decadute innumerevoli civiltà, di cui l’autore racconta facendo riferimento a fonti documentarie precise.

In questo viaggio nel tempo John Reader accompagna i lettori dagli albori dell’esistenza umana sul continente nero ai nostri giorni, non un racconto d’avventura, ma un viaggio nella storia dell’Africa, terra delle immense risorse naturali e della povertà più fosca. Ma questo volume riserva anche numerose curiosità storiche, di cui forse la scoperta della gomma naturale, utilizzata per fabbricare pneumatici, è la più significativa per diversi motivi: dal racconto della scoperta della pianta, alla corsa all’accaparramento delle risorse e al successivo cieco sfruttamento, tutto in favore del progresso che in Europa si andava compiendo.

Le contraddizioni della storia africana che emergono leggendo Africa. Biografia di un continente sono tante,  all’autore il merito d’aver raccolto in questo volume una vita spesa in Africa e per l’Africa, consegnando ai lettori la possibilità di conoscere le numerose storie dei numerosi popoli che hanno abitato questo misterioso continente.

23/01/2012
Vito Stano

mercoledì 11 gennaio 2012

Sommersi dal debito


Domenica 08 Gennaio 2012
Sommersi dal debito
Alessandro Volpi, Edizioni AltraEconomia
Pagine 120 - Costo € 13,00


Vito Stano



l'articolo completo è fruibile a questo link:
http://www.vglobale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=13877%3Asommersi-dal-debito&catid=46%3Aecolibri&Itemid=60&lang=it

lunedì 16 maggio 2011

"Sporca storia", un racconto ai limiti della realtà


Il nuovo libro di Ruggero Maria Dellisanti non è un saggio, ma un racconto intriso di fantasia costruito su alcune esperienze personali legate anche alla vita professionale dell'autore. Sporca storia, pubblicato dalla Stilo Editore, è frutto della volontà di Dellisanti di divulgare attraverso il racconto una storia che ha connotazioni stringenti dal punto di vista ambientale.


La storia proposta racconta dell'eccessivo consumo, dello spreco di beni, della mancata raccolta differenziata, ma soprattutto di reati ambientali. In concreto significative storie di quotidiana incuria: queste fanno da retroterra, in particolare quella del traffico illecito di rifiuti è al centro del racconto.

Magistrati, consulenti della procura, carabinieri e imprenditori del settore entrano tutti nelle pagine del singolare racconto partorito da Ruggero Maria Dellisanti, professore di geografia, geologo, saggista e consulente della procura di Trani.
Un romanzo corale nel quale fantasia e realtà s’intrecciano, lasciando il lettore senza fiato.

La scelta della narrazione romanzata è stato un cambiamento importante per uno scrittore di saggi relativi alle tematiche ambientali. Il romanzo certamente avrà il pregio di arrivare al grande pubblico, veicolando la sporca storia della “Puglia pattumiera d’Italia” attraverso le piccole storie di tre amici universitari che si ritrovano dopo molto tempo e si scoprono nelle professioni e nelle passioni, uniti e agli antipodi.

La storia del traffico dei rifiuti speciali che ogni giorno, ormai da anni, arrivano in Puglia, vista attraverso la lente del dovere e del dubbio, entrambe caratteristiche professionali dei protagonisti nati dalla penna di Dellisanti.

16/05/2011
Vito Stano