Già
nell’antichità migliaia di persone si spostavano in interminabili pellegrinaggi
per rendere omaggio alle divinità; in epoche recenti basti pensare a quel che
rappresenta Lourdes o San Pio o Medjugorje. Tra i pellegrinaggi dell’età
contemporanea occorre annoverare anche quei luoghi assurti a simbolo di una
tragedia: i campi di sterminio allestiti dai nazifascisti nell’Europa dell’Est,
e in particolare in Polonia, sono ad oggi diventati meta di un turismo interessante:
il turismo della memoria.
Questo
flusso di gente (si stima all’incirca 1 milione di visitatori annui) assume le
sembianze di moderni pellegrinaggi per visitare gli spazi fisici dove furono consumate
le peggiori atrocità che la Storia contemporanea ricordi; pellegrinaggi soltanto
un più confortevoli e molto meno lunghi. Dunque come ogni pellegrinaggio che si
rispetti anche quello della memoria ha creato un indotto di servizi e prodotti
(non solo gadget, ma anche
pubblicazioni editoriali, cibo, ricettività e shopping vario) e paradossalmente dalle disgrazie subite da milioni
di persone innocenti è nata una forma di sostentamento per tante persone che
vivono ad Oswiecim (che è il nome originario, in polacco, di Auschiwitz) e nei
dintorni di Cracovia. Questa considerazione è frutto dell’attenzione riposta,
ma non vuol essere un giudizio sull’operato quotidiano di molta gente, la quale
ha certamente sofferto la vicinanza e l’adiacenza ai quei luoghi di morte.
Questo
è un primo livello di lettura che il viaggio ad Auschwitz consente: il secondo,
e più interessante, è certamente rappresentato dall’approccio
superficial-turistico tenuto da centinaia di avventori durante il tour dei campi. Gli stessi spazi che
hanno “ospitato” migliaia di persone inermi oggi vengono percorsi da migliaia
di turisti della memoria più o meno consapevoli, più o meno sensibili alla
storia che quei luoghi raccontano. Lì dove fino a sessant’anni fa il fumo
significava morte, oggi significa benessere: ieri il fumo usciva dai comignoli
dei forni crematori, oggi dalle bocche sazie di turisti della memoria. Lì dove
fino a sessant’anni fa si raccoglieva l’acqua putrida dalle pozzanghere per
placare la sete, oggi si consumano lattina di bevande dolci e fresche. Lì dove
fino sessant’anni fa si piangeva per il dolore, le ferite, l’umiliazione, oggi
si parla a voce alta, si ride, si scattano fotografie ricordo. E questo è
l’altro livello di ragionamento che il viaggio ai campi può provocare: il
linguaggio dell’immagine come veicolo per raccontare una storia.
Purtroppo
la storia o le storie contenute in questo scrigno di morte per essere
raccontate senza retorica o superficialità necessitano di una conoscenza
storica e di una profonda consapevolezza dei luoghi. La fotografia onnipresente
nella vita odierna inserita in questo contesto causa delle aberrazioni che
potrebbero bene essere definite da «zoo», la foto ricordo all’ingresso del
campo di Auschiwitz sotto la triste scritta Arbet
march frei ne è la dimostrazione più eclatante. Portare a casa la foto
ricordo con la quale fregiarsi di aver visitato i luoghi dell’orrore è a tutti
gli effetti la prova provata della superficialità e dell’intento turistico
della visita-viaggio. Poca cosa rispetto alla coca-cola bevuta guardando la
bocca nera del forno crematorio (uno dei pochi ancora in piedi).
La
dimensione immaginifica che questi luoghi hanno prodotto nel visitatore ha
causato uno scadimento dell’interesse: non si pagano ticket per visitare i campi di sterminio; questa gratuità se da una
parte permette a tutti di visitare i luoghi dove si è consumata la tragedia di
milioni di persone (ebrei, rom, prigionieri politici, omosessuali, disabili),
mettendosi anche al riparo dalla potenziale accusa di lucrare sulle tragedie
del passato, dall’altra non crea un filtro necessario nella cultura
consumistica, nella quale vige il concetto che ciò è gratuito è senza valore e,
al contrario, ciò che ha valore ha anche un costo. In più molti edifici,
proprio a causa della scarsità di risorse economiche che arrivano al Museo di Auschiwitz,
sono crollati e non sono più visitabili.
Il
limbo del paradosso dentro il quale ci si ritrova appena atterrati in terra
polacca (e probabilmente non farebbe differenza qualsiasi altro luogo della
memoria europeo) è ben spiegato: la Storia non ammette ignoranza, proprio come
la legge, e proprio come questa che nel passato ha subito distorsioni
ideologico-criminali, oggi la Storia è soggetta a subire le distorsioni di
uomini e donne che vogliono ricordare con accento retorico, se non addirittura riduzionista
la tragedia che ha segnato la storia recente del Vecchio Continente.
01.02.2013
Vito Stano