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venerdì 17 gennaio 2014

Museo della Fotografia di Bari. Ripartono gli incontri con il maestro Carlo Garzia

Il laboratorio di Fotografia del Museo della Fotografia del Politecnico di Bari presenta Carlo Garzia in Family life: a statement. Martedì 21 gennaio alle ore 17,15 nell’Aula Magna Attilio Alto del Politecnico di Bari  in via Orabona al civico 4 il maestro Garzia parlerà di Family life, film  del 1971 del regista inglese Ken Loach che racconta il precipitare nella schizofrenia di una giovane ragazza inglese.

Il tema della famiglia e la critica della sua forma patriarcale e autoritaria è centrale nella riflessione di varie scienze e linguaggi, dall’antropologia (Lévi-Strauss ed altri) alla linguistica, alla letteratura, ma anche nella pittura, nella iconologia e infine nella fotografia. L’incontro con Carlo Garzia, che inaugura la stagione 2014 del Museo di Fotografia del Politecnico di Bari, parte da due immagini esemplari: un soggetto dalla bellezza apollinea di Duane Michals e un autoritratto ambiguo e marcatamente androgino di Robert Mapplethorpe; entrambi alludono al mito platonico dell’amore formulato nel Simposio, in cui si sostiene che l’essere originario fosse unisessuale e che solo in seguito alla sua ribellione sia stato scisso in animus e anima, il maschile e il femminile che si inseguono continuamente per ricostituire l’unità originaria.

L’amore non ha ancora come sbocco obbligato la costruzione di una famiglia che nasce perciò come esigenza e necessità storica, tesa essenzialmente alla conservazione della specie, come ammette lo stesso Freud in Il disagio della civiltàL’incontro si svilupperà su una sessantina di immagini, vere e proprie icone di autori noti e meno noti, cercando di incrociare l’asse storico-diacronico della rappresentazione del modello familiare e quello spaziale e sincronico della sua rappresentazione in tempo reale.

Sarà sottolineata l’importanza di alcuni testi e di alcune mostre-evento soprattutto a partire da  The family of man, curata nel dopoguerra ancora devastato, da Edward Steichen con il robusto contributo fisico e ideologico del governo americano. Questa traduzione essenzialmente umanistica se non buonista e ottimistica della natura e dell’essenza della convivenza familiare sarà traumaticamente interrotta dalla grande ribellione generazionale del 68, nella quale anche la fotografia svolge un suo ruolo non solo di documentazione. A modo suo però anche il 68, attraverso il modello della comune, hippies o politicizzata che fosse, riproponeva un prototipo certamente diverso e utopistico, ma ancora legato a un’idea astratta di fratellanza e di armonia universale che dura di fatto sino all’avvento del regime dell’edonismo reaganiano e del più crudo tatcherismo in Inghilterra. La crisi del welfare, il liberismo senza limiti e le sue conseguenze ispireranno una nuova generazione di fotografi come Martin Parr e Paul Graham (British Photography from the Thatcher years, 1991) e Chris Killip, che si specializzano con altri in una critica feroce soprattutto della classe media e piccolo borghese dell’Inghilterra di quegli anni o nella documentazione della miseria dei lavoratori, soprattutto minatori delle aree industriali del nord. È necessario pensare anche a film come Trainspotting o a gruppi musicali come i Clash e in generale alla nascita del movimento movimento punk.

Siamo ormai in una fase, cominciata già prima dello sguardo devastante di Diane Arbus, in cui il valore e il senso affettivo-contrattuale della famiglia si disgregano, aumenta la visibilità e la pratica di forme di relazione molto complesse e non abituali. Questa dimensione cruda e anti-umanistica coincide anche con la diffusione dell’AIDS e diventa una poetica della trasgressione e della marginalità attraverso il lavoro di autori come Nan Goldin, Wolfgang Tillmans, Nicolas Nixon sino alla dimensione grottesca e alla derisione, almeno dal punto di vista dei valori familiari tradizionali, con autori quali Richard Billingham, Terry Richardson e Boris Mikhailov.


È evidente che il tema proposto è centrale per una piena comprensione della rappresentazione del nucleo familiare quale è maturata soprattutto in occidente a partire dal secolo fiammingo sino ai nostri giorni ben oltre i limiti relativamente ristretti della fotografia.

(fonte fb Museo Fotografia)

venerdì 21 giugno 2013

Paesaggio in fotografia: Alberta Zellone chiude gli incontri del Museo

Martedì 25 giugno alle 17,30 nella sala conferenze del Politecnico di Bari in via Amendola 126/B, la professoressa Alberta Zallone, docente presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Bari, terrà l’ultimo incontro del corso di fotografia dell’anno accademico 2012-2013.

La ricerca di Alberta Zallone copre un’esperienza di vita e lavoro negli Stati Uniti iniziata già negli anni Settanta e rientra perfettamente nell’idea e nella pratica che della fotografia contemporanea di paesaggio ha ‘La Corte’, di cui è socia fondatrice.

Il titolo dato all’incontro èWhereabouts’, espressione che indica una qualche familiarità con i luoghi ma che contiene sia un’indicazione più netta, where, sia una sfumatura più ambigua e problematica about. L’incontro si articolerà in un continuum di immagini metropolitane (New York, ma non solo), in una serie di visioni che mettono in relazione il paesaggio aspro del deserto e una natura ancora intatta quasi tropicale (in realtà entrambi man-altered, basti pensare a ricerche ormai classiche come i ‘Desert Cantos’ di Misrach o al West “dialettico” di Shore sino alla magia di ‘Cape Light’ di Meyerowitz). Nei grandi spazi dell’America, come sostiene Baudrillard, è lo spazio stesso in sé a costituire un modo non solo di vedere, ma anche di pensare. La fotografia quindi non è una pratica estetica spesso passivamente mutuata dalla pittura, ma un sapere, un atto che definisce e si appropria del significato di un luogo.


L’incontro sarà preceduto da una presentazione di Pio Meledandri, direttore del Museo di Fotografia del Politecnico di Bari e da una breve relazione di Carlo Garzia, il quale cercherà di focalizzare l’importanza e l’influenza della cultura americana in Italia sin dal secondo dopoguerra.

(Museo della Fotografia del Politecnico di Bari)

martedì 15 gennaio 2013

Vincenza De Nigris dal 16 gennaio al castello Normanno-Svevo di Bari


«La narrativa è il punto di partenza del mio lavoro, è il mezzo con il quale riesco a descrivere ciò che vedo. Talvolta trovo un'ambiente o una persona che mi colpiscono, allora comincio ad immaginare una scena, una storia, che si traduce subito in una sequenza fotografica»Così spiega Vincenza De Nigris parlando della mostra che sarà inaugurata domani gennaio presso il castello Svevo di Bari. La mostra, come ha dichiarato Carlo Garzia, il curatore, «è la prima tappa di un viaggio nella creatività femminile». 

Con gli scatti di Vincenza De Nigris viene riscoperto il gusto del racconto. La mostra personale Narrative Photographyvisitabile dal 16 gennaio - vernissage alle 18 - fino al 17 febbraio negli spazi dell'associazione La Corte, Fotografia e ricerca al castello Normanno-Svevo di Bari è composta da 23 immagini che testimoniano tre diverse direttrici della ricerca fotografica, tuttora in progress, dell'autrice, cioè Autobiography, progetto che vede l'accostamento dell'immagine della fotografa a quella della madre. Questo «è un lavoro sulla memoria e sul confronto generazionale, al di là dell'auto-narrazione». E vale la pena ricordare che la serie Autobiography ha debuttato, scelta da Denis Curti, direttore dell'agenzia Contrasto, nella sezione Young Talent per Affordable Art Fair a Milano nel 2012.

Quindi il progetto Melancholy «che è un'indagine fotografica sulla capacità evocativa dei colori nello sguardo dei fruitore di un'immagine». Ed Epifanie urbane che è un viaggio sul dialogo fra il corpo femminile, nella massima parte dei casi, e i non luoghi delle periferie metropolitane. «Più in generale   precisa Vincenza De Nigris   le immagini che realizzo sono una sorta di film-still, come se fossero state estrapolate da una storia più ampia e spesso possono vivere in modo indipendente l'una dall'altra. Quello che mi interessa non è che il pubblico comprenda la mia storia, ma che ogni singola persona riesca a farla propria, riesca ad entrare nella sequenza e a costruirsi una propria narrazione: le mie immagini sono solo delle tracce, degli spunti per l'osservatore».

Ma, spiega ancora Garzia, la personale Narrative Photography rappresenta soprattutto «la prima tappa nel 2013, un precedente c'è stato lo scorso anno con Francesca Loprieno, di una ricognizione a chilometro zero nel giovane panorama autoriale pugliese, destinata a svilupparsi anche nei prossimi progetti espositivi della Corte. Al femminile, soprattutto, perché sono le giovani fotografe a destare interesse per la loro riscoperta della memoria in chiave sia lirica che di introspezione attraverso la pratica dell'auto-narrazione come della messa in scena del quotidiano».

(vedi repubblica.it)